La mia legacy: oltre il nome, il simbolo

Pubblicato il 27 novembre 2025 alle ore 05:10

Ci sono nomi che suonano,

nomi che passano,

nomi che si consumano nel tempo.

 

E poi ci sono i simboli:

quelli non muoiono.

Non hanno bisogno di voce, né di presentazioni.

Parlano da soli, ovunque li metti.

 

Il mio percorso mi ha insegnato una cosa semplice:

il nome può essere dimenticato, cancellato, storpiato, ignorato.

Il simbolo no.

Il simbolo resta anche quando tu non parli più,

anche quando non sei presente nella stanza,

anche quando la gente fa finta di non vederti

ma dentro sa benissimo chi sei.

 

La vera legacy non è scrivere un cognome su una porta.

È fare in modo che basti un dettaglio —

un suono, un tratto, un segno, un gesto

— per far capire immediatamente

che lì c’è la tua impronta.

 

Io non voglio essere ricordato “per nome”.

È troppo poco, troppo fragile.

Io costruisco un’identità che sopravvive alle mode,

ai periodi, agli attacchi, ai silenzi, agli sbagli.

 

Un’identità che non ha bisogno di chiedere spazio:

se lo prende.

E quando appare, cambia il clima della stanza.

 

La mia legacy è questo:

non un’etichetta, ma una presenza.

Non un marchio, ma una direzione.

Non un cognome, ma un codice.

 

Il nome può essere pronunciato.

Il simbolo può essere temuto, rispettato, studiato.

 

Il nome resta finché qualcuno lo dice.

Il simbolo vive anche quando nessuno parla più.

 

Io costruisco per quello.

Per il “dopo”, non per l’“adesso”.

Per ciò che rimane quando tutto il resto evapora.

 

Il mio passaggio non sarà ricordato:

sarà riconosciuto.

Ivan Minervini