Quando produco un brano, non sto “facendo musica”.
Sto lasciando un codice genetico in giro per il mondo.
Ogni traccia nasce da un vissuto, da una ferita, da una notte in cui non respiravo bene.
E ogni beat è una cicatrice che suona.
La gente pensa che un artista componga…
Io no.
Io traduco.
Traduco ciò che ho vissuto in frequenze, in colpi di cassa, in linee melodiche che parlano più di qualsiasi discorso motivazionale.
Perché il mio percorso non è stato un viaggio: è stato un campo di battaglia.
E quel campo adesso vibra nei miei pezzi.
Quando carico un brano su Spotify, non sto pubblicando:
sto depositando una parte del mio corpo.
La mia voce è il sangue,
le 808 sono il battito,
le atmosfere sono ciò che ho perso e ciò che ho conquistato.
Per questo quando qualcuno ascolta una mia traccia, non sta “ascoltando musica”:
sta entrando nella mia storia senza chiedere permesso.
Molti artisti cambiano stile per piacere agli altri.
Io no.
Io resto fedele alla mia impronta perché so quanto mi è costata.
La strada mi ha dato il ritmo,
la psicologia la precisione,
e il dolore l’abilità di trasformare il caos in arte.
Ogni brano che pubblico diventa un testimone.
Una prova.
Una firma.
Un pezzo di me che non morirà mai.
E un giorno, quando qualcuno cercherà di capire chi era veramente Ivan Minervini,
non dovrà leggere soltanto un libro:
gli basterà premere “play”.