La musica non mente.
Nemmeno quando ci prova.
Ogni brano è una traccia lasciata da qualcuno che, spesso, non voleva parlare di sé.
Eppure lo ha fatto lo stesso.
La musica è autobiografia non autorizzata:
racconta ciò che siamo stati, ciò che abbiamo temuto, ciò che non abbiamo avuto il coraggio di dire ad alta voce.
Non importa il genere.
Non importa il successo.
Importa l’intenzione.
Un giro di accordi può contenere un’infanzia intera.
Un silenzio può dire più di una strofa.
Un errore di timing può essere una confessione.
Chi crea musica non scrive solo canzoni.
Scrive archivi emotivi.
E chi ascolta, spesso, non sta cercando un suono.
Sta cercando una conferma:
“Qualcun altro ha sentito quello che ho sentito io.”
Per questo la musica attraversa il tempo.
Per questo alcune canzoni invecchiano e altre diventano identità.
Non perché siano perfette.
Ma perché sono vere.
Io non ho mai usato la musica per raccontare una storia.
L’ho usata per sopravvivere a una.
E col tempo ho capito una cosa:
più cerchi di controllare il racconto, più la musica ti tradisce.
E meno controlli, più ti rappresenta.
La musica non chiede il permesso di essere sincera.
E forse è proprio per questo che funziona.
Non come intrattenimento.
Ma come testimonianza.